martedì 3 febbraio 2015

cultura


due punti:

a cura di Sandra Tornetta

cultura: dal latino colere, coltivare, abitare, praticare. L’utilizzo spesso spropositato ed incoerente del termine deriva probabilmente dalla sua natura polisemica. Infatti, è all'interno della stessa radice latina che si possono ritrovare tutte quelle varianti di significato che rendono la parola “cultura” ora un orpello estetico utilizzato in conversazioni dai toni volutamente elevati, ora un vessillo politico per veicolare atteggiamenti populisti e mistificatori. L’eterno dibattito, che ancora oggi anima i salotti di una certa intellighenzia, è quello tra cultura “alta” e cultura “popolare”. La prima, solitamente relegata ad un uso esclusivo e settario di esperti ed amatori, si manifesta attraverso opere la cui aura artistica tocca nel profondo, riesce a smuovere le viscere degli individui che ne fruiscono i benefici effetti  liberatori anche dopo secoli. La seconda boccheggia, sprofondata nel luogo comune dell’appiattimento mediatico da cinepanettoni.
Per fortuna, però, non vige sempre la dura regola del tertium non datur e una via alternativa che riesca a coniugare il furòr di popolo con il fùror dell’artista, esiste. Si pensi al jazz, genere musicale considerato tra i più dotti del secolo scorso, che nasce all’interno dei bordelli di New Orleans proprio come espressione della cultura popolare afroamericana.
Keith Haring (1987) - Untitled
La storia, dunque, ci insegna che l’uomo è in grado sia di esprimere che di decodificare messaggi alti e profondi al contempo, senza avere alcun bisogno di mediatori che gli permettano di coglierne i significati. Chi sostiene il contrario afferma che le masse abbiano bisogno di essere guidate, perché da sole non saprebbero che direzione prendere. Non a caso, i sistemi totalitari hanno utilizzato proprio l’esperienza estetica associata al termine “cultura popolare” per coinvolgere la folla, indebolirne i bisogni intellettuali  e creare il consenso. 

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