due punti:
a cura di Sandra
Tornetta
cultura: dal latino colere,
coltivare, abitare, praticare. L’utilizzo
spesso spropositato ed incoerente del termine deriva probabilmente dalla sua
natura polisemica. Infatti, è all'interno della stessa radice latina che si
possono ritrovare tutte quelle varianti di significato che rendono la parola
“cultura” ora un orpello estetico utilizzato in conversazioni dai toni
volutamente elevati, ora un vessillo politico per veicolare atteggiamenti
populisti e mistificatori. L’eterno dibattito, che ancora oggi anima i salotti
di una certa intellighenzia, è quello tra cultura “alta” e cultura “popolare”.
La prima, solitamente relegata ad un uso esclusivo e settario di esperti ed
amatori, si manifesta attraverso opere la cui aura artistica tocca nel
profondo, riesce a smuovere le viscere degli individui che ne fruiscono i
benefici effetti liberatori anche dopo
secoli. La seconda boccheggia, sprofondata nel luogo comune dell’appiattimento
mediatico da cinepanettoni.
Per fortuna,
però, non vige sempre la dura regola del tertium
non datur e una via alternativa che riesca a coniugare il furòr di popolo con il fùror dell’artista, esiste. Si pensi al
jazz, genere musicale considerato tra i più dotti del secolo scorso, che nasce all’interno dei bordelli di New Orleans proprio come espressione della
cultura popolare afroamericana.
Keith Haring (1987) - Untitled |
La storia,
dunque, ci insegna che l’uomo è in grado sia di esprimere che di decodificare
messaggi alti e profondi al contempo, senza avere alcun bisogno di mediatori
che gli permettano di coglierne i significati. Chi sostiene il contrario
afferma che le masse abbiano bisogno di
essere guidate, perché da sole non saprebbero che direzione prendere. Non a
caso, i sistemi totalitari hanno utilizzato proprio l’esperienza estetica
associata al termine “cultura popolare” per coinvolgere la folla, indebolirne i
bisogni intellettuali e creare il
consenso.
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